venerdì 16 novembre 2012

“Parlare l’italiano”: quanta efficacia linguistico-comunicativa? Intervista al Prof. Vallauri

Processo di alfabetizzazione, scolarizzazione obbligatoria, democratizzazione culturale, accessibilità universitaria: tutti fattori chiave che hanno negli anni chiaramente innalzato il livello culturale in Italia. Oggi è naturale frequentare la scuola dell’obbligo, proseguire gli studi, leggere per puro piacere, dilettarsi con la scrittura, iscriversi alle più disparate facoltà universitarie. Possiamo definire conclusi, dunque, i tempi in cui il dialetto costituiva la modalità di comunicazione per eccellenza e dominava incontrastato in ogni dove d’Italia, mentre la lingua italiana “vera” rappresentava ancora un “privilegio” riservato a pochi eletti.
Oggi tutti gli italiani sono chiaramente in grado di parlare e scrivere correntemente (o quasi) in lingua italiana e senza neanche grosse difficoltà. La lingua italiana, quindi, é diventata per tutti, ma, soprattutto “appartiene a tutti”. Ma quanti, invece, sono in grado o possono dirsi in grado di parlare un italiano “perfetto” o  ”semi” e di qualità elevata?
Quanti autoctoni riescono attualmente ad usare la nostra lingua camaleonticamente, adattandola ai vari interlocutori e assegnandogli di volta in volta un graduale livello formalità e declinandola in base alle “richieste” del contesto? Siamo tutti in grado di comunicare con l’altro in maniera efficace? Siamo capaci col nostro linguaggio di persuadere, affascinare, intrigare? Siamo sicuri di utilizzare opportunamente le parole che “scegliamo” per il nostro parlare quotidiano?
La lingua italiana é sicuramente una delle lingue più complesse del ceppo linguistico neolatino e, a parere di chi scrive, forse è proprio questa sua complessità a renderla unica e straordinariamente affascinante. I nostri vocabolari sempre più ricchi, infatti, ci raccontato di una lingua che non lascia nulla al caso. Ogni aspetto, ogni cosa, ogni momento della vita di chi parla l’italiano può dirsi “identificato” attraverso un termine preciso e sempre appropriato. Ma quanti sono in grado, però, di far propria questa ricchezza terminologica? Quanto si riesce effettivamente a variegate il proprio parlare di ogni giorno?
A queste domande il nostro magazine ha provato a dare risposta attraverso l’aiuto di un grande esperto della lingua italiana. Controcampus ha incontrato, infatti, l’emerito professore Edorado Lombardi Vallauro, docente di Linguistica presso l’università di Roma Tre e autore del libro “Parlare l’italiano. Come usare meglio la nostra lingua” (Il Mulino, 2012).
  • Parlare l’italiano, o meglio saper usare opportunamente la lingua italiana rappresenta oggi, a quanto pare, un’abilità che appartiene ancora a pochi. Lei che uno studioso della nostra lingua, a cosa riconduce questa scarsa qualità nello scrivere e nel parlare degli italiani? Quali responsabilità del sistema educativo/scolastico?
Appartiene a pochi nella sua forma più compiuta, flessibile, elegante ed efficace. In forme meno perfette, tutti parlano e quasi tutti scrivono, con un progresso verticale rispetto a pochi decenni orsono, quando la comprensione e l’uso dell’italiano – tanto più scritto - non si estendevano neanche a tutto il corpo sociale. Sono note le cause di questo imponente miglioramento, dalla scuola alla televisione nazionale e in ultimo a internet. In particolare la scuola ha meriti immensi. Non ci inganni il fatto che oggi si sente più spesso di prima usare male l’italiano: è perché un tempo lo usavano pubblicamente pochi “eletti”, mentre oggi lo possono usare pubblicamente tutti. Ma proprio questa ormai vasta diffusione della lingua a livelli accettabili ci propone una possibilità nuova: portare tutti a un livello superiore; di vera, pienamente utile, rallegrante padronanza. E anche su questo la scuola può dare un contributo determinante. A condizione che i prossimi governi non portino a termine ciò che hanno iniziato i precedenti, cioè il progetto di distruggerla.
  • Università e uso corretto della lingua italiana. Docenti da più parti d’Italia lamentano un’incapacità, per un importante numero di studenti, di sostenere un esame mantenendo un livello medio alto d’italiano nel conferire durante gli esami. La situazione peggiora nel caso in cui gli studenti si trovino a dover svolgere test ed esami scritti. C’è un modo secondo lei per recuperare concretamente in quegli anni un corretto uso della lingua, c’è tempo effettivo durante i cinque anni accademici per dedicarsi “anche” al miglioramento del proprio italiano?
Certo, l’accesso di massa all’istruzione superiore vi porta anche coloro che non sono ancora completamente “pronti”. Ma è sempre meglio di quando lo stesso tipo di persone (concretamente, i loro genitori, e prima i loro nonni) non ci arrivavano proprio, all’istruzione superiore. Allargando la base, è più difficile mantenere la stessa altezza. Personalmente non credo che l’università debba occuparsi di colmare questo ritardo, quando c’è. L’università deve già insegnare le materie di cui si compone il sapere che viene riconosciuto indispensabile nei vari campi. Chi non ha pratica sufficiente dell’italiano, e in particolare dell’italiano scritto, dovrebbe – e potrebbe – praticarlo di più dove esso esiste nella sua forma migliore: la buona letteratura. Leggere molti libri scritti molto bene dota chiunque di un buon italiano. Anni fa un’indagine voluta da Tullio de Mauro come Ministro della Pubblica Istruzione rivelò che negli italiani il soddisfacente controllo della lingua non correlava né con l’età, né con il censo, né con la provenienza regionale, né con il titolo di studio. L’unico parametro che si trovò in correlazione statistica significativa con la padronanza della lingua era… il numero di libri presente in casa.
  • La presenza sempre più consistente di stranieri in Italia potrebbe ancor di più assottigliare lo “spessore” e la qualità della nostra lingua oppure ritiene che, al contrario, possano verificarsi anche dei condizionamenti positivi?
La presenza di stranieri non può in alcun modo danneggiare l’italiano, a meno che l’arricchimento di parole di origine straniera possa essere considerato un danno per la lingua; ma questa concezione “purista” è ben difficile da sostenere. In ogni caso, l’italiano contiene già molte migliaia di parole di uso comunissimo che hanno origine francese, inglese, tedesca, spagnola, russa, araba, e virtualmente di ogni altra lingua un po’ importante sulla scena mondiale. Da approccio a bistecca, da gasolio a seduttivo, da burro a civiltà, da miccia a ottimista: che danno ci arrecano queste utilissime e rispettabili parole? E forse che film, sport o computer, la cui provenienza straniera è più visibile perché le abbiamo importate in un secolo in cui la familiarità con le lingue straniere ci ha resi capaci di non italianizzarle troppo, ci danneggiano di più? Suvvia. Peraltro, ciò che conduce a importare parole straniere è molto più il prestigio di una civiltà che la presenza di cittadini stranieri sul territorio. Gli immigrati in Italia sono una fonte molto debole di contaminazione linguistica. Certo, non tutti fra loro arrivano rapidamente a parlare un buon italiano;e certo potebbero ricevere un aiuto maggiore; ma questo non influisce sul modo in cui parlano l’italiano quelli che l’hanno come lingua materna.
  • Internet: l’informazione “mordi e fuggi”, il luogo dove ognuno può scrivere e raccontare di qualunque cosa e in qualsiasi modo, quasi sempre “per frammenti”. Troppo spesso ci si imbatte, navigando on line, in vere e proprie perdite di senso della lingua italiana dove contenuti, fatti, notizie sono raccontati attraverso linguaggi “di getto”, a volte “banali”, attraverso espressioni sgrammaticate e priva di forme in perfetto stile italiano. Quali ulteriori effetti benefici e/o malefici si potrebbero verificare nei prossimi anni?
Come abbiamo detto prima, la possibilità di parlare e scrivere estesa a tutti porta in pubblico forme imperfette di espressione; ma è sempre un progresso rispetto a quando a esprimersi erano solo i super-preparati e super-autorizzati, cioè pochissimi, mentre quasi tutti gli altri non ne erano capaci e non avevano la possibilità di farlo. Un rischio però c’è: che l’imperfezione, se portata alla pubblica ribalta, faccia da modello (negativo) e venga imitata su larga scala. A questo proposito devo dire che oggi la televisione è molto peggiore di Internet, dove le persone hanno pur sempre un ruolo in parte attivo e quindi critico (anche sulla forma, non solo sul contenuto). La stupidità dei contenuti e la banalità espressiva stanno di casa in televisione più che in qualsiasi altro luogo. E la televisione ha più di ogni altra cosa il potere di rendere le persone passive imitatrici di modelli molto fiacchi; anche – benché non solo – sul piano linguistico. Far tacere la pochezza dei “bravi presentatori” sarebbe uno dei passi importanti sulla strada della civiltà.
  • Il mondo della comunicazione virtuale via chat o degli sms tra giovani oggi è sempre più denso di abbreviazioni quasi incomprensibili, acronimi italiani e inglesi e parole a cui si associano significati sempre più inediti. Nel suo libro più volte sottolinea l’adeguamento della nostra lingua alle consuetudini del parlare quotidiano. Siamo prossimi ad accogliere anche in altri ambiti parole come LOL, ASAP, IMO, DGT, XO’, CMQ, C6?, DGT, CPT, XDN… ?
Non bisogna confondere la lingua con l’ortografia. Gli esempi che mi cita sono certamente di attualità, ma riguardano il modo abbreviato con cui vengono scritte alcune parole o espressioni (per la verità, ben poche). Chi negli sms scrive xò continua a dire però, e non si sogna di dire “icsò”, e chi scrive cmq non si sogna di dire “ciemmecù”.  In alcuni casi (ancora meno numerosi, e spesso scherzosi) queste abbreviazioni, e soprattutto sigle, originate dal vantaggio che procurano in contesti di scrittura rapida, vengono adoperate anche nel parlato e diventano parole a pieno titolo. E allora? Che problema c’è? È sempre successo che gli acronimi (le sigle) e le parole abbreviate venissero adoperati per sveltire la comunicazione. Vorremmo forse imporre a tutti di dire sempre“Imposta sul Valore Aggiunto” invece di iva? Oppure cantante autore e elicottero porto invece di cantautore ed eliporto? La verità non è che le nuove abbreviazioni e sigle “targate” telefonino o computer peggiorino l’italiano. Né che siano “incomprensibili” per tutti; ma solo per chi non sta dietro al fluire della storia. La verità è che chi ha altri motivi per diffidare dei moderni mezzi di comunicazione è alla ricerca di pretesti per dirne male; e allora si inventa che bisogna mettere in guardia contro i danni che potrebbero fare alla lingua. È solo l’ennesima incarnazione del moralismo, cioè dell’atteggiamento di chi dice: se io questa cosa non la so o non la posso fare, voglio che non la faccia nessuno.
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